Reiterare la notizia sui tifosi dell’Hellas Verona (che sabato 20 ottobre hanno rivolto insulti, accompagnati da simbologia nazifascista, al giocatore Piermario Morosini, morto in campo il 14 aprile 2012) ci permette di ricordare la questione “tifoserie e influenze politiche“.
Non intendiamo sintetizzare qui nè certi approcci di rivalutazione antropologica del fattore curve, nè alcune apologie in seno al movimentismo, anche di sinistra. Ci interessa invece una cronistoria lampo per interrogarci sul futuro dell’iniziativa fascista.
L’intervento dei movimenti della destra estrema sulle curve dei tifosi italiani ha inizio ancora negli anni del riflusso. Anni in cui i terroristi bruni sono costretti all’esilio, alla fuga verso lidi tranquilli in cui poter prescrive crimini atroci. Il contenitore curva, per chi restava, sembrava forse, in pendant con il fenomeno bonehead, un’ottima incubatrice dove far ricrescere l’identitarismo di strada. Nel corso degli anni si sono così accavallati scontri, assalti a caserme, pogrom e aggressioni mirate. Nel frattempo la risposta statale si è avvalsa di nuovi e antichi dispositivi di controllo sociale: dalle tessere del tifoso alle recinzioni preventive. L’elemento tifoseria italiano sembra così oggi in gran parte costretto fra le maglie della destra fascista (critiche a parte nei confronti di un certo tipo d’identitarismo fra le tifoserie a sinistra), agglomerato subculturale formato sui richiami localisti prima, nazionali poi.
L’utilizzo di questi “guerrieri”, allenati in campo, sembra però sempre meno centrale nell’economia generale delle città (fatta eccezzioni per alcuni casi in cui la tifoseria di casa, nella reazione generale, diviene cultura). Le nuove generazioni vengono infatti culturizzate e iniziate con la cinghiamattanza. A chi restano le sottoculture fasciste degli stadi? Rimarranno un parallelo tragico gestito dai vecchi camerati? O saranno lasciate in balia delle frange più naziste, frange che dello scontro fisico hanno fatto materia prima, come FN?