Il pugno bianco di Trump

L’immagine non proviene dalle patrie galere ma rimbalza comunque sui nostri schermi, e il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America è riuscito a inserirlo anche nel proprio discorso inaugurale.

Si tratta del ben noto pugno bianco, ripreso dal movimento politico White Power negli anni ’80 del novecento.

L’origine del pugno chiuso viene dal dadaista John Heartfield, che nel 1924 riuscì a trasformare un’espressione naturale di collera in una “forma simbolica fissa” , introdotta poco dopo dalla Rfkb (Roter Frontkämpferbund) come saluto d’ordinanza, nei movimenti della sinistra rivoluzionaria. Il pugno chiuso rappresenta l’unione dei lavoratori (fragili se divisi, come le dita di una mano) in grado di spezzare l’opposto saluto fascista: aperto, piatto e rigido.

Ancora coerente nel suo significato (come forma di lotta degli oppressi), viene adottato anche dall’organizzazione Black Power negli anni ’60 (il pugno chiuso a capo chino) e passerà solo vent’anni dopo ad uso e consumo del White Power come simbolo completamente stravolto.

Il simbolo in mano ai suprematisti bianchi non indica la lotta degli sfruttati, degli oppressi, degli ultimi o i marginali. È un simbolo di odio razziale e di violento revanscismo macista.

Probabile suggerimento del consulente antisemita Steve Bannon, il pugno di Trump non è quindi rivolto agli sfruttati ma ai bianchi, di qualsiasi classe e ceto.

È un pugno che grida vendetta per un’improbabile ingiustizia subita, mentre addita come razzisti quei “progressisti” che hanno svalutato la pelle bianca all’interno del mercato globale.

È un elemento di anti-anti-razzismo dal momento in cui non rivendica apertamente il proprio inconfondibile razzismo ma, in maniera viscida, suggerisce che la popolazione di pelle bianca (esclusa ovviamente quella ebraica) stia subendo un torto spettacolare e che, una volta eliminata la controparte cromatica (messicani, neri e quant’altro), ogni malefico piano d’invasione possa essere dimenticato. Solo a quel punto i bianchi potranno tornare a godere dei sani frutti del libero mercato.

Lo ha detto il Presidente Trump: il potere è ora nelle mani del popolo fin tanto che ricorda di comprare americano e assumere americani! La nuova agenda presidenziale non parla invece di sfruttamento della mano d’opera straniera o di delocalizzazione.

Se le parole di Trump indicano il “sangue dei patrioti” come indipendente dal colore della pelle, il suo pugno suprematista ricorda ai suoi elettori più feroci dove è diretta l’agenda presidenziale.

Dietro ogni trollata, la legge di Poe

15338611_1129757587079500_1610273321691341238_n“Il vero nazista vota Sì” firmato “Nazisti per il sì” è un manifesto affisso a Roma poco prima del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Che l’obiettivo sia quello di detournare i propositi del voto favorevole alla modifica della costituzione era cosa chiara a molti. Non a tutti però.

Il Sì di questi nazisti può sembrare chiaro nei suoi intenti ironici ma lascia spazio a troppe incertezze. I primi evidenti elementi, a cui segue l’acquila romana di ventennale memoria, sono un saluto romano accompagnato dal grande Sì.

Quando si detourna (o si trolla nel mondo 2.0) i rischi di imcomprensione sono molti. In strada come sui social la legge di Poe, che ricordiamo sostiene che «senza un emoticon sorridente o qualche altro chiaro segno di intenti umoristici, non è possibile creare una parodia del fondamentalismo in modo tale che qualcuno non la confonda con il vero fondamentalismo», la fa da padrona.

Se il mio messaggio è ambiguo e opaco, sarà sicuramente riservato ai pochi, o solo a quella parte, in grado di comprenderlo: che si tratti dei più ‘svegli’ la sostanza non cambia, si tratta sempre di una forma di esclusione.

Bisogna sempre tener conto di questa legge quando si usa l’ironia, il detournamento o il trollaggio. Il rischio aristocratico, elitario e fascista è proprio dietro l’angolo.

Perché i tuoi amici continuano a seguire InformareXResistere?

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Il banner che InformareXDesistere ci propone è l’apoteosi del revisionismo storico.

L’uomo catturato dalla famosa foto del 1936 è August Landmesser, operaio tedesco antinazista.

Informare X Resistere riprende il focus sulla pecora nera antifascista rovesciandone il significato: stende un velo LGBTQ sul popolo nazista e mostra l’oppositore come un eroe eterosessuale. In questo modo

  1. si compie l’artificio omofobo, trasformando un ribelle in un tradizionalista;
  2. i tradizionalisiti (che si credono rappresentanti ufficiali della maggioranza eteronormata) compiono un paragone storico orripilante fra le piccole vittorie di minoranze oppresse e i regimi totalitari;
  3. la fantasia paranoide riguardante una fantomatica “ideologia gender” è capace di far esplodere una marea di altri accostamenti infami (come quello fra l’Olocausto e, a detta dei tradizionalisti cattolici, l’aborto-genocidio).

È del 26 giugno 2012 il nostro primo articolo su IXR. Ok, siamo un piccolo blog poco seguito su piattaforma non proprio mainstream… però di articoli sul fenomeno ne sono usciti eccome, anche su riviste online piuttosto note

… perciò, se ancora vi chiedete perché i vostri amici seguano un blog colmo di panzane mal scritte da integralisti cattolici in vena di far soldi, partite da un presupposto: chi vi sta vicino adora i ciarlatani.

La pista anarchica

E torniamo, dopo una breve pausa meditativa, con un ottimo articolo di Mazzetta e una pessima notizia da Fermo. Sembra infatti che nella simpatica città marchigiana le forze di sicurezza chiamate carabinieri confondano ancora i terroristi di destra con gli attivisti di sinitra. E i giornali naturalmente seguono con malizia la scia dei gorilla in uniforme.

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Di seguito l’articolo di Mazzetta.

È quasi imbarazzante commentare la notizia di due persone definite dal Repubblica «ultrà anarchici» in un pezzo confuso che mescola l’incredulità alla versione ufficiale data dalle autorità. Si dice infatti che «L’eversione, al momento, sembra l’unico movente» intendendo con il termine l’eversione anarchica, anche se il pezzo riferisce di come i due arrestati facessero riferimento allo stesso gruppo di «ultrà» d’estrema destra al quale appartiene Amedeo Mancini, l’estremista di destra che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi e che abitualmente andava in giro per la città insultando le persone di colore o tirando loro noccioline. Per sua stessa ammissione.

Circostanza che fa scrivere: «Non è un caso che i due eventi, così diversi tra di loro, siano però nati nello stesso ambiente, quello del tifo organizzato e dell’eversione.» I due arrestati infatti mettevano bombe contro le chiese e i centri d’accoglienza per gli immigrati e la matrice di questo tipo di terrorismo pare evidente a tutti in città e fuori. I carabinieri però non sono della stessa idea e hanno concluso che i due estremisti di destra siano in realtà «anarchici», due persone per le quali il movente non sarebbe il razzismo, ma «l’attacco all’ordine costituito». Proprio la fede nell’anarchia, nemmeno «la loro assoluta dissennatezza», come ha detto poi il procuratore in televisione, sconfessando la pista «anarchica» insieme a quella xenofoba radicata nell’estrema destra. Dichiarazione che non ha impedito a Rainews, che ha mandato in onda l’intervista, di definire comunque i due arrestati come «ultrà anarchici» nei titoli. Come si sia giunti a identificare per anarchici i due estremisti di destra è spiegato nell’ultimo paragrafo del pezzo, che merita una lettura integrale. Ma ecco il capolavoro:

E non è un caso che Emmanuel Chidi Namdi fosse ospite della comunità di don Vinicio, la stessa a cui erano in qualche maniera collegate le chiese oggetto degli attentati. Gli arrestati hanno entrambi 36 anni e vivono di lavori saltuari. Secondo le prime indiscrezioni, sarebbero in qualche modo legati ad Amedeo Mancini, in carcere per l’omicidio del profugo nigeriano. Uno dei due sarebbe una sorta di ideologo, convertito dai valori ultrà di destra a quelli anarchici. In casa dell’uomo i carabinieri hanno trovato e sequestrato alcuni libri che testimonierebbero questo passaggio e gli orientamenti ideologici dell’indagato. In questo contesto avrebbe maturato la decisione di colpire l’ordine costituito, scegliendo in particolare le chiese. Sarebbe stato lui a dare incarico all’altro fermato di confezionare gli ordigni che avrebbero poi materialmente posizionato insieme nei luoghi da colpire.

L’altro «anarchico» è un altro estremista di destra che ha seguito le indicazioni dell’amico «anarchico» non si sa perché. Un estremista di destra capace di costruire ordigni pericolosi e disposto a farlo più volte. La «pista anarchica», tradizionale risorsa italiana, in questo caso può essere evocata solo con estremo sprezzo del ridicolo e infatti il procuratore ha evitato di proporre questa interpretazione a favor di telecamere. E se mai fosse vera sarebbe davvero notevole, gli anarchici che mettono bombe contro le chiese, quasi come l’ISIS, una notiziona. Resta che giornali e telegiornali stanno facendo i titoli con gli «anarchici» mentre a Fermo operava una cellula terrorista d’estrema destra, praticamente alla luce del sole e nell’indifferenza delle istituzioni. Che ora hanno evidentemente tutto l’interesse a negare che nella piccola città marchigiana si sia lasciata mano libera a estremisti tanto pericolosi.

Nonnismo e dintorni

Condividiamo l’articolo di devovomitare sul nonnismo dentro e fuori i movimenti libertari. Fenomeno cristallino ma sempre sottaciuto, il nonnismo sembra essere l’anticamera di comportamenti autoritari ben radicati all’interno dei suddetti movimenti a cui s’ha da sommare il leadersimo (libertariamente relegabile alla figura sociologica dell’opinion leader) ed un certo gusto per l’espertismo, la specializzazione del singolo (teorica o meno).

Rapporti facili plasmati nel nome dell’anarco-interesse supremo, momenti di sopraffazione viscida e pericolosa dove la vittima eccellente non potrà mai essere collocata all’interno di una sola varibile (giovane, duro di capa, migrante, donna, frocio, vigliacco etc.). Quando subodoriamo queste situazioni, rispondiamoci: “posso aiutarlo a fare/capire”. Da qui riprendiamo il discorso sul concetto di ‘autorevolezza’ e ‘resistenza’.

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Nonnismo Militante

 

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Nell’orrenda società moderna si usa suddividere la vita di un individuo in 4 fasi principali; infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia.

Ora, queste fasi hanno un qualcosa di inerente alla nostra biologia ed al cambiamento del nostro cervello nell’arco del tempo, o almeno in realtà è così, quando si sposta tutto sul piano societario la cosa cambia.Si assegnano numeri di inizio e fine di un percorso come se tutti avessero stessi scopi e stessa vita, si distribuiscono doveri e compiti a seconda della “maturità”, vengono impressi stereotipi e in alcuni casi si inventano di sana pianta fasi della vita inesistenti; vedasi la figura del teenager, una specie di adolescente che scimmiotta l’adulto e ripropone modelli di comportamento presi da televisioni e pubblicità, non a caso il “teenager” è un concetto nato e implementato proprio in america, una sorta di ragazzino alienato sottoposto ad un brainwashing costante che ti fa nascere un conflitto interiore tra l’odiarlo a morte ed il compatirlo per i propri atteggiamenti indotti.Questo mio discorrere dovrebbe aver fatto ben intendere quanto i comportamenti societari basati sulla propria età sono frutto della rappresentazione artistica di se stessa, e non di un reale rapporto dell’individuo con se stesso ed il suo cambiare nel tempo.Accade che in quest’orrenda società moderna si da un diverso grado di autorità a seconda del numero dei propri anni passati su questa terra. L’avanzare dell’età è come scalare una gerarchia, quasi senza neanche volerlo ci ritroveremo ad essere riconosciuti come in possesso di un qualche potere da chi ci circonda su chi ha meno anni e più considerazione da chi ne ha pari o ne ha di più. In tutto ciò il medio integrato aggiunge un gusto cinico nell’usare la propria età come un arma, una tremenda ed arrogante scusa per avere ragione su tutto ciò che lo mette in conflitto con i più giovani, conferma il suo dominio sulla discussione con argomenti come “sei solo un ragazzino”, “parla quando crescerai”, “non puoi ancora capire” e crea così un rapporto a senso unico dove per una disparità decisa in partenza lui si può permettere ogni mancanza di rispetto nei confronti del minore, ma viceversa suona come uno scandalo ed un’eresia.
Si chiama “Nonnismo” ed è l’atteggiamento arrogante e insopportabile degli adulti per sfogare le proprie frustrazioni sui minori, con la giustificazione che ciò serva a quest’ultimi come input verso l’integrazione del mondo che li aspetta quando avranno raggiunto la sua stessa età, in realtà il minore accumulerà tutta la violenza subdola che l’adulto ha sfogato su di lui e pretenderà di sfogarla a sua volta quando crescerà e si ritroverà più in alto nella gerarchia dell’età.
Quindi un circolo perpetuo, dove il carnefice si sfoga sulla vittima producendo un nuovo carnefice che si sfogherà su nuove vittime all’infinito… Così si perpetua la cultura autoritaria dell’adultismo; il controllo sociale degli adulti  sui minori e più fortemente sugli infanti, tramite la scuola, la famiglia ed ogni qualsiasi rapporto adulto/bambino.
Fondamento di  questa cultura è che l’adulto pretenda di ricollegare tutti i più giovani ad uno schema generale, spersonalizzandoli e non capendoli individualmente fino infondo (“eh voi giovani”, “voi alla vostra età”, “è normale ai tuoi anni”) così nascono i vari centri di indottrinamento sociale (asili, scuole, catechismo) che pretendono di impartire nozioni tutte uguali ad adolescenti ed infanti infondo a se tutti diversi, ma ciò è incomprensibile in una maniera quasi impossibile.
È questo che sfugge alle mentalità nonniste e alle istituzioni che portano avanti l’adultismo culturale; la varietà, variabilità, profondità e dinamicità del bambino o del ragazzo, nonostante chi è plagiato da questo mostro culturale pretenda ciecamente di essere l’esatto contrario; conoscitore per filo e per segno di ogni individualità più giovane, perché? Perché gli adulti sanno sempre  tutto e i giovani sono tutti uguali.
La grande  amarezza è notare che  atteggiamenti  figli di questa cultura sono vivi anche negli  ambienti che si propongono antagonisti di essa.
In una  maniera  settoriale, denigrare un migrante con frasi come “tornatene a casa  tua!” o “voi siete tutti ladri” appare inaccettabile e fortunatamente totalmente assente in ambiti libertari, ma sembra che mettere a tacere qualcuno in una discussione con frasi tipo “sei solo un ragazzino”, “ne riparliamo quando sarai più grande”, “non puoi capire, sei piccolo” sia cosa non troppo rara e pochissime volte contestata.
Questo perché in questa cultura ci siamo invischiati  tutti (compreso chi sta scrivendo ora), e tante volte prima di criticare ciò che c’è la fuori bisognerebbe guardare dentro se ed eliminare, almeno il più possibile, rimasugli di determinati prodotti societari (in questo caso adultismo e nonnismo) per avere  finalmente una visione di insieme della propria lotta ed un rapporto obiettivo con i nostri alleati in essa.

Né carnefice né vittima

Del post-anarchismo poco è conosciuto. Nella nostra penisola poche compagne e pochi compagni ne conoscono autore, ai più non competono poi gli strumenti (per lo più post-strutturalisti) complessi e difficili da articolare.

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Il manifesto di Onfray ha però ben poco di analitico. Offre invece un’inaspettata voce vibrante a una teoria fin troppo relegata, da occhi inesperti, al calcolo umanistico o al relativismo prospettivista. Offre insomma una personale e vivace nota di colore al nuovo modo del fare anarchico negando, palesemente, la questione dell’essere anarchici nel contemporaneo. Il post-anarchismo non è un neo-anarchismo, se non nella misura in cui andrà a sostituirsi ai suoi precedenti teorici. Il post-anarchismo, ci avverte l’autore, trova la sua radice in tutti i pensieri anarchici (Godwin, Proudhon, Stirner, Michel, Fourier, Bakunin, Krpotkin, Thoreau, Reclus, Faure, Jacob, d’Axa, Pouget, Armand, Machno, Pelloutier, Volin, Malatesta, Ryner, Devaldes, Goldman, Lecoin e gli anarco-sindacalisti) ricavandone il meglio, digerendone le contraddizioni dovute , anche, ai tentativi totalizzanti di cogliere, attraverso una sola e completa Teoria, vita e morte dell’essere sociale. Nonostante questo i pensieri anarchici, e così il movimento da loro immaginato, sono stati fra i più fecondi e sperimentali fenomeni a cavallo della seconda metà dell’ottocento e la prima del novecento. Per questo il manifesto per la nonna di Onfray è da considerarsi come post-anarchico: non si nega l’anarchismo precedente, se ne afferma un altro, già vivo nel precedente.

Continuando a camminare sulla linea del tempo possiamo immaginare che le due guerre, l’egida più autoritaria del marxismo e l’ignobile persecuzione subita in ogni dove abbiano ridotto all’osso un movimento che, dal dopoguerra, dovette occuparsi di ricostruire la propria identità, la storia e la memoria dei suoi pensieri.

Gli anarchici furono sempre più considerati ortodossi burocrati conservatori di un tempo che fu. E il ’68 di questo accusava spesso i rivoluzionari rossoneri. Così lo stesso pensiero post-strutturale si trovò spesso a formulare dei j’accuse piuttosto duri, capaci di considerare l’anarchismo come il più “razzista “fra tutti i movimenti socialisti (v. “Bisogna difendere la società” di Michel Foucault), troppo legato all’impatto identitario in certune occasioni.

Onfray ci racconta la sua vita, narra una storia parallela a questa tensione anarchica e sessantottina, affinità e paure, contrapposizioni e diffidenze fra due pensieri così vicini e sempre incompresi.

Ma ciò di cui dovremmo forse renderci conto oggi è che nel post-anarchismo non troviamo un semplice lavoro di ricerca relegato all’avanguardismo accademico, marxista o situazionista come nel ’68. Lo strumento post-anarchico è necessario, perchè specifico e in linea con l’epoca di convergenza delineata oggi da Newman (la critica anti-capitalista di stampo libertario in continua crescita) e perchè si prefige come strumento politico ‘pop’: vuole diffondersi nel movimento, vuole scorporare l’idea del Movimento, vuole riattivare una critica nel presente, una critica che sia anti-filologica.

ilpopolodellescimmie (fra le sue varie anime) è anche questo: un laboratorio dove la critica anti-identitaria non cerca un Nemico (lo Stato, la Polizia, il Fascismo), quanto un approccio micro-politico e radicalmente anarchico alla vita e al suo divenire altro.

Divertiti sì dal dipingere (ogni qualvolta ci capiti) i grossi bradipi identitari, ricerchiamo in essi le costanti risposte da evitare e gli strumenti più adatti per combatterli dentro e fuori il nostro contesto umano e non.

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Contro la «Chiesa anarchica» per un’«anarchia positiva»

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Nota: mentre scrivo la tastiera mi e saltata, mi scuso per i numerosi errori che riscontrerete

L’ultimo libro di Michel Onfray, farà discutere e su questo ci sono pochi dubbi.
L’agile volume dal titolo “Il post-anarchismo spiegato a mia nonna” (Eleuthera, p.91, 10 euro) è una riflessione del noto filosofo francese sull’anarchismo, un pensiero politico, un modo di essere che deve essere ri-attualizzato.

Il libro è diviso in due parti. La prima è una breve narrazione della vita di Onfray, di come è arrivato a innamorarsi del pensiero anarchico, grazie alla frequentazione con un barbiere, ex deportato, che gli prestò un volume di Volin, facendogli scoprire l’orrore sovietico. La seconda parte si addentra invece nel post-anarchismo, e quindi nella riflessione contemporanea che sviluppa il pensiero anarchico classico cercando di farlo convergere con il post-strutturalismo.

Se la prima parte lancia qualche frecciata a quella che viene considerata «Chiesa anarchica», è nella seconda che l’autore si fionda a capofitto in una critica aspra nei confronti di quello che considera un dogma. Ed è qui che l’autore farà discutere, bacchettando tutti i “millenaristi” che attendono una rivoluzione imminente, rifiutando, per statuto, Stato, elezioni, polizia etc. Onfray però non convince, e difficilmente potrebbe farlo in un così breve spazio. Al filosofo sembra facile rigettare il pensiero di Stirner affermando che «Per considerare Stirner un anarchico e sdoganarlo da ogni egoismo, bisogna non aver letto L Unico e la sua proprieta» o, ancora, criticando l’accezione di Godwin come “precursore dell’anarchismo”: «la sua opera è quella di un protestante millenarista che descrive l’avvento del paradiso in terra, in un remotissimo futuro, grazie alla persuasione e alla retorica». Ciò che rivendica è un’ «anarchia positiva», il post-anarchismo appunto, che, evitando di rifarsi a scritti di cento-duecento anni fa, è capace di attivarsi per ”l ora e subito” evitando di rinchiudersi in un dogma, quando si rifiuta quest’ultimo per natura.

Onfray tuttavia non convince affatto, l’analisi che offre è troppo limitata rispetto alla vastità di cio che mette in gioco. Lasciamo a chi legge il giudizio, ad esempio, su quanto scrive in merito al capitalismo:

Si confonde spesso il capitalismo, un modo di produzione delle ricchezze che presuppone la proprietà privata, con il liberalismo, un modo di ripartizione delle ricchezze così ottenute. Per questo potrebbe esistere un capitalismo libertario, proprio come c’è stato un capitalismo sovietico o come c’è un capitalismo ecologico, verso il quale sembra che ci stiamo dirigendo. (p. 56-57)

Messo il luce l’aspetto che chi scrive ritiene piu debole, bisogna ora sottolinearne i pregi. Quando afferma la volontà di un «anarchia positiva» Onfray ha ragione, ovvero c’è la necessità  di evitare solo la critica fine a se stessa per proporre una costruzione quotidiana della pratica anarchica. Allo stesso modo, quando afferma la necessità di andare oltre gli scritti degli autori dell’Ottocento, pone anche qui un problema! Se non è possibile mandare quasi tutto al rogo, come sembra fare lui, è tuttavia necessario ripensare l’anarchia attualizzandola.

Onfray cerca di estrapolare dai pensatori anarchici un nucleo comune che possa fornire un’interpretazione non contraddittoria della storia anarchica e, da qui, parte per farla convergere con il pensiero di Foucault, Deridda, Deleuze etc. Ciò che fa, nella provocazione costante, è una critica dura al mondo anarchico come mondo autoreferenziale e “negativo”. Ciò, credo, è sia un pregio che un difetto dell’autore. Se da una parte smuove utilmente le acque in tal senso, dall’altra sembra eccessivamente smanioso di de-costruire la storia e la cultura anarchica. Colpisce poi, il riferimento minimo che viene dato all’anarchismo italiano. Non certo per amor patrio ma perchè, storicamente, gli anarchici italiani hanno svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo del pensiero anarchico [e forse a Onfray starebbe simpatico Berneri che non cita] e sembra quindi difficile eluderli.

Speriamo, infine, che la discussione si apra, almeno per dare dignità a questo sviluppo del pensiero anarchico [che si chiami post, neo o quello che si vuole] che in Italia sembra faticare [nonostante, ad esempio, un Salvo Vaccaro molto impegnato in questo ambito] ma che potrebbe dare linfa vitale a un movimento la cui luce sembra da fin troppo spenta.

A.

 

Marco Aime – La macchia della razza

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Un testo in forma di lettera indirizzata ad un bambino che si trova il dito sporco di inchiostro, ma non per gioco: «una macchia che non è solo quella del tuo dito, è sul tuo volto, sulla tua anima. E’ la macchia della razza».
Pubblicato per la prima volta nel 2009 per Ponte alle Grazie, Eleuthèra ripropone quest’anno un libro di Marco Aime, tremendamente attuale, che ci pone di fronte alle tante contraddizioni che la politica della paura, della tolleranza zero pone sul tavolo. E’ la macchia della razza! Nessuno è razzista, «non è nel nostro DNA», dice Maroni. E si che «non è facile essere razzisti, negando di esserlo», ma lui ci è riuscito. Una lettera che è un grido di rabbia nei confronti di una società contraddittoria, capace di cancellare la propria memoria, finendo così ad usare le stesse discriminazioni che un tempo furono per gli italiani. Un tempo nemmeno troppo distante, se poi si pensa a quel piatto di spaghetti con un pistola sopra, finito in copertina di un noto settimanale tedesco, a cui, però, ci si è ribellati.

Marco Aime, antropologo vissuto, scrive dunque una lettera piena di passione, una riflessione feroce sull’ipocrisia di chi si rifugia nella paura di un bersaglio debole e facile da identificare, su chi usa questa paura per dei voti perché, se “i calabresi”,”i siciliani” che finivano nei titoli negli anni Sessanta potevano votare, oggi i “senegalesi”, gli “albanesi” etc. non possono e quindi sono soggetti che si possono colpire.
Aime, ci mostra la nostra violenza, quella che non è mai “razzismo”, quelle aggressioni, come Nicola Tommasoli a Verona nel 2008, che non sono “politiche”, sono aggressioni di qualche balordo, verso cui non si invoca mai la tolleranza zero. Non troveremo mai dei titoli di giornale che recitano:

“Maniaco padano violenta una minorenne marocchina”

“E’ nell’indole degli adolescenti siciliani uccidere e violentare”

Ragazzi veronesi delinquenti per cultura

“Coppie di Erba propense a uccidere i vicini di casa”

L’unica cosa che troviamo è la nostra paura, che crea degli spettri fittizi, a cui è facile aggrapparsi e su cui è facile accanirsi.